L’innovazione non è una favola ma un’ecologia culturale

 

L’innovazione non è una favola di semiconduttori e venture capital: è un’ecologia culturale. Comincia nelle scuole e nelle biblioteche, passa per editori che sanno scegliere; si alimenta di dati e competenze, e solo alla fine diventa mercato, impresa, competitività.
Se in Italia oggi si discute di Neet come di una ferita aperta - 1,4 milioni di persone giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano, con un costo sociale stimato in 24,5 miliardi l’anno - non è solo un dato sul lavoro; è un indicatore del nostro capitale di conoscenza che evapora prima di diventare valore. È la spia di un corto circuito fra scuola, formazione, salari e prospettive, perché senza una filiera della conoscenza, l’innovazione è una parola elegante che non mette radici.

/ Dalla quantità alla cura
Ecco perché, nel pieno di una tempesta tecnologica che accelera ogni ciclo, colpisce la scelta controintuitiva di Feltrinelli: pubblicare il 20% di novità in meno per dare più vita ai libri, restituire a chi legge orientamento, a chi vende tempo, a chi scrive durata.
In un mercato che sforna quasi 300 titoli al giorno, cambiare metrica - dalla quantità alla cura - è una forma di innovazione editoriale: creare valore dilatando l’attenzione, non saturandola. È una decisione che parla al Paese intero, non solo al settore. E le idee devono sedimentare bisogna ridurre il rumore che le rende invisibili.
Il tema della visibilità - dei libri, delle competenze, dei progetti - torna identico quando si esce dal perimetro culturale e si guarda ai numeri della competitività. L’Italia guadagna tre posti nel Global Attractiveness Index 2025, ma resta frenata da salari reali in calo nel lungo periodo, da un tasso di occupazione insufficiente e da una fuga di persone laureate che asciuga l’ossigeno degli ecosistemi. Non è una condanna ma ancora una volta l’effetto di una catena di valore della conoscenza spezzata tra formazione, imprese e reti territoriali. È possibile colmarla solo se le competenze vengono trasformate in progetti visibili e scalabili.

/ Italia, nord-ovest
Guardando a nord-ovest: il Piemonte prova a far rinascere ex aree industriali come fabbriche del futuro. Non più bulloni ma server, non più presse ma cluster di calcolo: 43 progetti di data center hanno chiesto l’allaccio alla rete in un solo anno, con un hyperscale in arrivo a Caselle da oltre 500 milioni. È la geografia concreta dell’intelligenza artificiale. Dove si inseriscono energia, acqua, fibra, raffreddamento, riuso del calore, lì nasceranno i nuovi distretti. L’innovazione è governance, sostenibilità, tempi autorizzativi, regole chiare. Senza, i data center restano cattedrali nel deserto digitale.

/ Guardando all’Europa
Sul piano europeo, la bandiera dell’autonomia tecnologica sventola a Jülich perché la Germania ha inaugurato Jupiter, primo supercomputer europeo di classe exascale. È un simbolo ma è soprattutto un’infrastruttura di conoscenza, perché addestrare grandi modelli di IA in Europa significa ridurre dipendenze strategiche e offrire a università, startup e industrie un banco di prova per applicazioni in sanità, clima, materiali, finanza. Naturalmente non basta l’hardware. Servono politiche di accesso e adozione rapide, programmi di supporto e un ponte continuo tra laboratori e impresa. Altrimenti l’exascale resta un trofeo da conferenza stampa.
Questo ponte tra ricerca e mercato è l’ossessione giusta anche nella difesa, dove la Nato Innovation Fund mette un miliardo per tecnologie dual use e si dà una struttura esplicitamente orientata all’adozione nei ministeri della Difesa, non solo alla finanza dei deal. È una buona notizia per l’Europa e per l’Italia. L’innovazione, qui più che altrove, non è una demo ma interoperabilità.

/ La French Tech
Allargando lo sguardo agli ecosistemi, la French Tech racconta una lezione utile: gli investimenti e le uscite rallentano, ma l’occupazione cresce comunque di 16 mila posti netti nel primo semestre 2025. È il segno di un ecosistema più maturo, dove molte startup puntano alla redditività e all’autofinanziamento. Allo stesso tempo, il “collo di bottiglia” delle exit ricorda che senza mercati dei capitali profondi, comparatori industriali e IPO percorribili, l’innovazione resta un circuito chiuso. Servono canali di liquidità — inclusi mercati secondari — perché il capitale possa ricircolare verso il nuovo.

/ Il volto umano
Ma l’innovazione non vive solo di grandi nomi o di grafici macro. Ha sempre un volto umano. A Chicago, il percorso di Eric Lefkofsky lo dimostra. Sei aziende unicorno in carriera e, oggi, Tempus, piattaforma che usa IA e genomica per personalizzare le cure oncologiche. Non è la retorica della disruption, è la storia di uno spostamento del baricentro dai coupon di Groupon alle biopsie molecolari reso possibile dall’incontro, talvolta doloroso, tra esperienza personale, ricerca e capitale paziente. Anche qui, il nodo è la traduzione: trasformare banche dati cliniche in decisioni mediche riproducibili, scalabili, rimborsabili. È la stessa traduzione che serve alle pmi italiane quando “traducono” dati di produzione in margini, qualità, nuovi servizi.

/ Le catene di valore
Dalla cultura alla tecnologia, il filo è uno soltanto: rendere selettiva la corsa, non elitaria. L’IA continuerà a rivoluzionare processi e mercati, ma separerà con freddezza chi costruisce catene del valore da chi rincorre modelli di moda. I rischi non mancano. Si parla di fame di energia, eccessi di investimento, illusioni di monopolio. Ma la risposta corretta non è evocare la bolla per fermarsi, bensì dotarsi di strategie industriali e dietro le quinte organizzativi che trasformino i progetti in produttività reale. È anche un invito a evitare che norme nate per prudenza — come certi irrigidimenti sull’assetto organizzativo introdotti nelle imprese più giovani — trasformino le startup in “mini-aziende” prima ancora che abbiano trovato il proprio prodotto-mercato. L’innovazione richiede gradualità regolatoria: un conto è la trasparenza, un altro è imporre costi fissi e procedure che sterilizzano la sperimentazione.

/ Il valore sta nel bene
Tornando al di partenza di libri e conoscenza, si comprende allora perché un editore che taglia le novità per salvare l’attenzione dei lettori sia, in fondo, il gemello culturale di un distretto che pianifica data center o di un governo che finanzia exascale e adozione difesa. Si tratta di tre modi diversi di dire la stessa cosa, e cioè che il valore non sta nel molto, ma nel bene. Per l’Italia questo significa tre priorità “semplici” e difficili: pagare meglio le competenze per trattenere cervelli e motivazioni; connettere scuola, ITS, università e imprese su progetti veri, con docenze che passano dai laboratori ai reparti e ritorno; dare tempo a chi costruisce contenuti — un romanzo o un algoritmo — di uscire dal rumore e incontrare comunità pronte ad adottarli. L’innovazione, alla fine, è questo: un Paese che allena il proprio desiderio di futuro e impara a vedere ciò che crea.

/ Fonti
• Corriere della Sera, 2 settembre 2025: «Meno titoli ma più visibili. In Italia 300 nuovi libri al giorno»
• La Stampa, 6 settembre 2025: Giovani inattivi, Sos Italia. “Costano 24,5 miliardi quanto una finanziaria”
• Corriere della Sera, 5 settembre 2025: Italia più attrattiva, scala 3 posizioni. Ma pesano i bassi salari, laureati in fuga
• Motherbase.ai, 5 settembre 2025: Semestre positif pour l’emploi dans les startups : les chiffres sont là
• Chicago Tribune, 3 settembre 2025: ‘He’s been a huge force in Chicago’
• Corriere della Sera, 2 settembre 2025: Le ex fabbriche rinascono con l’Ai. In Piemonte 43 nuovi data center
• Handelsblatt, 5-6-7 settembre 2025: Deutschlands KI-Aufholjagd
• Il Foglio, 5 settembre 2025: Il nuovo Codice della crisi d’impresa soffoca le startup innovative


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