Globalizzazione: fine corsa o nuova forma?

 

Per anni la globalizzazione è stata sinonimo di progresso. Ha significato confini sempre più aperti, mercati sempre più integrati, supply chain planetarie. Ha favorito l’ascesa economica della Cina e dell’India, ha trasformato il consumatore in cittadino globale. Ma oggi, nel 2025, quella parola sembra aver perso il suo alone salvifico.
I nuovi dazi introdotti da Donald Trump - “Liberation Day”, come l’ha chiamato la Casa Bianca - hanno scosso i mercati e segnato un punto di rottura. Le tariffe americane colpiscono tutti: amici e nemici, storici alleati e partner strategici. E mettono a nudo una frattura ben più profonda, quella tra il mondo che ha beneficiato della globalizzazione e quello che ne è stato travolto.

Globalizzazione Sì: le ragioni per difenderla
Il caso della Cina è emblematico. Entrata nel WTO nel 2001, ha approfittato dell’apertura globale per diventare la seconda potenza economica mondiale. Secondo la Banca Mondiale, più di 800 milioni di cinesi sono usciti dalla povertà in meno di trent’anni. L’India ha seguito un percorso simile: dopo le riforme degli anni ‘90 e l’apertura agli scambi, ha conosciuto una crescita sostenuta che l’ha portata a diventare la quinta economia del mondo.
La globalizzazione ha inoltre favorito la diffusione delle innovazioni. I vaccini mRNA, la rete 5G, l’intelligenza artificiale: tutto ciò che oggi chiamiamo “tecnologia globale” è figlia della collaborazione transnazionale tra universi scientifici e aziende.
E poi c’è la delocalizzazione, che dal punto di vista delle imprese ha consentito di accedere a manodopera a basso costo e materiali più economici. Le multinazionali americane hanno incrementato profitti e valore per gli azionisti. E le PMI esportatrici europee hanno potuto crescere su mercati lontani.
Inoltre, dall’accordo di Parigi sul clima ai protocolli sanitari dell’OMS, la globalizzazione ha portato anche una governance multilaterale delle emergenze globali. La cooperazione ha aiutato a gestire crisi finanziarie, pandemie, conflitti commerciali.

Globalizzazione NO: critiche e limiti
La pandemia ha mostrato quanto sia rischioso dipendere da un solo Paese per i microchip o per i principi attivi farmaceutici. La guerra in Ucraina ha riportato in primo piano la dipendenza energetica. E oggi le supply chain globali sono percepite come un potenziale pericolo, non solo un vantaggio.
Se nei Paesi emergenti la globalizzazione ha ridotto la povertà, spesso in quelli ricchi ha alimentato frustrazione e precarietà: il voto operaio che una volta sosteneva i democratici è passato al populismo repubblicano, spinto dalla sensazione di essere stato tradito dall’élite globalista.
La corsa al costo più basso ha portato con sé la delocalizzazione in paesi con bassi standard ambientali e scarso rispetto dei diritti dei lavoratori. Il caso Nike e dei colossi del retail è emblematico: fabbriche in Cambogia, Laos e Vietnam, salari minimi, condizioni discutibili.

Oltre la contrapposizione: quale globalizzazione oggi?
Quello che sta morendo non è la globalizzazione in sé, ma il suo modello più estremo: quello iper-finanziario, deregolato, dominato dalla delocalizzazione selvaggia, e gli Stati Uniti sono diventati una potenza revisionista dell’ordine liberale da loro stessi creato.
Guardando invece alla regionalizzazione e alle alleanze selettive, l’Europa cerca nuovi partner: accordi con Mercosur, India, Africa. L’India stessa cambia approccio e si apre a trattative. La Cina si chiude ma rafforza i legami con il Sud globale. È una globalizzazione a blocchi, più lenta ma ancora viva. E le imprese si adattano. Quelle americane stanno già modificando le supply chain. Si parla di “reshoring”, ma anche di “multi-sourcing” e “supply chain resiliente”. Apple sposta parte della produzione in India. GM rilocalizza camion in Indiana. Nike studia nuove soluzioni.
Mentre la globalizzazione fisica vacilla, quella digitale accelera. Le big tech continuano a operare globalmente, ma affrontano dazi, norme, e necessità di frammentazione. La nuova globalizzazione viaggia su binari di dati, AI e piattaforme.

Serve una nuova governance
Non possiamo tornare a un mondo chiuso, ma non possiamo nemmeno accettare una globalizzazione ingovernabile. Serve una nuova architettura economica: più giusta, più sicura, più sostenibile. L’UE è tra i soggetti più colpiti dal ritorno dei dazi. Ma può trasformare la crisi in occasione: diventare campione della "globalizzazione sostenibile", delle regole comuni, della cooperazione verde e digitale.

Fonti
• Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2025: I dazi di Trump e il cambio della geografia del commercio globale
• Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2025: Un mercantilismo imperialista rischioso
• La Stampa, 5 aprile 2025: Decoupling e friend-shoring: il mondo si divide in blocchi
• Corriere della Sera, 6 aprile 2025: Globalizzazione, un divorzio all’americana
• La Verità, 6 aprile 2025: Il tycoon ha seppellito un mondo già morto
• Il Fatto Quotidiano, 6 aprile 2025: Dazi, il colpo di Trump alle grandi imprese USA
• elEconomista.es, 5 aprile 2025: EEUU golpea a los países asiáticos donde se deslocalizó China
• elEconomista.es, 5 aprile 2025: La nueva oleada de aranceles puede provocar la segunda ola de la inflación
• elEconomista.es, 5 aprile 2025: La guerra comercial provocará que el PIB de la UE vuelva a estancarse


Pubblicato da: Admin
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